Il genitore è deceduto da poche settimane. La sua pensione era un importante sostegno economico per te che, per via di una invalidità già riscontrata dalla commissione medica dell’Asl, non hai un reddito adeguato ai tuoi bisogni. Ti chiedi pertanto se puoi usufruire della pensione di reversibilità nonostante la tua maggiore età. La cosiddetta “reversibilità”, ossia la possibilità di succedere nell’assegno pensionistico di un soggetto defunto, non viene riconosciuta a tutti ma solo a determinate persone ed in presenza di particolari requisiti. Tra questi vi è il coniuge, anche se separato. Vi è poi il coniuge divorziato, ma solo se ha l’assegno di mantenimento. E infine vi sono i figli ma solo se minorenni o studenti universitari con un’età compresa tra 21 e 26 anni. Per i maggiorenni, la pensione di reversibilità viene erogata solo ai figli inabili al lavoro e che erano a carico del genitore morto. Di tanto si è occupata di recente la Cassazione. Alla luce di tali pronunce, cerchiamo di capire meglio come funziona la pensione di reversibilità per familiari inabili al lavoro.
Pensione di reversibilità ai figli maggiorenni
Il figlio maggiorenne disoccupato non ha diritto alla pensione di reversibilità del genitore, a meno che questi sia uno studente universitario con un’età compresa tra 21 e 26 anni. Quindi chi è senza lavoro non può contare su alcun sostegno e non ha modo di recuperare la pensione del padre o della madre defunta. Allo stesso modo non vi ha diritto lo studente oltremodo fuoricorso, ossia con almeno 27 anni d’età.
Affinché il figlio maggiorenne possa ottenere la reversibilità deve essere invalido. In particolare, in caso di morte del pensionato, il figlio superstite ha diritto alla pensione di reversibilità, ove maggiorenne, se riconosciuto inabile al lavoro e a carico dei genitore al momento del decesso. A disporlo è la legge stessa [Art. 13, r.d.l. 14 aprile 1939, n. 636] che afferma: «Ai fini del diritto alla pensione ai superstiti, i figli in età superiore ai 18 anni e inabili al lavoro, i figli studenti, i genitori, nonché i fratelli celibi e le sorelle nubili permanentemente inabili al lavoro, si considerano a carico dell’assicurato o del pensionato se questi, prima del decesso, provvedeva al loro sostentamento in maniera continuativa».
Sono equiparati ai figli i nipoti minori di età, anche in assenza di adozione o affidamento, purché risulti provata la vivenza a carico dell’ascendente deceduto.
Reversibilità per figli a carico del genitore
La giurisprudenza si è sempre preoccupata di chiarire cosa si debba intendere per “figli a carico dei genitori” al momento del decesso. La norma è infatti piuttosto generica e non chiara nell’indicare i presupposti per rientrare in tale requisito. Secondo gran parte delle sentenze della Cassazione [Cass., sent. n. 3678/2013], per essere “a carico” non è necessaria la convivenzacon i genitori né una situazione di totale soggezione finanziaria ad essi da parte del figlio inabile. Bisogna solo dimostrare che il genitore provvedeva in via continuativa e in misura quanto meno prevalente al mantenimento del figlio inabile. Insomma, il principale e più stabile contributo economico in favore del figlio doveva essere offerto dalla pensione del genitore morto. Quindi si considera “a carico” anche il figlio titolare di un proprio minimo reddito, tuttavia occasionale e sufficiente a soddisfare solo in minima parte i suoi bisogni.
Risulta quindi essenziale il requisito dellaprevalenza del contributo economico continuativo del genitore nel mantenimento del figlio inabile. Per ragioni di certezza giuridica, di parità di trattamento, di tutela di valori costituzionalmente protetti, l’Inps e la Cassazione hanno tentato di individuare criteri quantitativi certi che assicurino eguale trattamento ai superstiti inabili. In tale logica si è detto che [Cass. sent. n. 14996/2007] vanno considerati “a carico” i figli maggiorenni inabili che hanno un reddito non superiore a quello richiesto dalla legge per il diritto alla pensione di invalido civile totale [Cfr. anche delibera INPS n. 478 del 2000].
Sempre la Suprema Corte ha anche detto [Cass. sent. n. 9237/2018] che non basta dimostrare la convivenza tra i due soggetti per stabilire se il figlio è “a carico” (ben potrebbero sussistere infatti situazioni in cui il figlio vive a casa del genitore o viceversa solo per compagnia o per un reciproco sostegno fisico); occorre invece provare che il genitore defunto provvedeva in via continuativa ed in misura totale, o quanto meno prevalente, al mantenimento del figlio inabile [Cass. n. 1979/1984].
La situazione di inabilità
Oltre alla “vigenza a carico”, la legge subordina la reversibilità alla situazione di inabilità (il testo non richiede l’avere diritto alla pensione di inabilità che è cosa diversa). L’inabilità è una condizione che rende impossibile lavorare o ne riduce le capacità non in assoluto, ma in relazione alle mansioni per le quali il dipendente è formato. Ad esempio è inabile uno scaricatore che contrae un’ernia del disco pur potendo svolgere altre mansioni che, tuttavia, non è in grado di adempiere per l’assenza di preparazione.
L’inabilità, intesa quale impossibilità assoluta e permanente di svolgere qualsiasi attività lavorativa a causa di infermità o difetto fisico o mentale, deve essere riconosciuta alla data del decesso del genitore. Il figlio riconosciuto inabile al lavoro nel periodo compreso tra la data della morte del pensionato o dell’assicurato e il compimento del 18° anno di età, conserva il diritto alla pensione ai superstiti anche dopo il compimento della predetta età.
Secondo la Cassazione, la “vivenza a carico” va interpretata anche alla luce della inabilità richiesta dalla norma. L’essere a carico non significa “mera coabitazione”, né uno stato di totale soggezione finanziaria del soggetto inabile; si tratta di un requisito che va verificato anche alla luce della situazione di salute del soggetto inabile ed in particolare con l’accertata impossibilità a svolgere qualsiasi attività lavorativa. In pratica, l’essere rimasto costantemente nell’abitazione dei genitori e l’essere la situazione di disagio fisico o psichico imputabile anche ad una situazione familiare compromessa, dimostra la vivenza a carico. Da qui il collegamento del requisito con lo stato di salute, quale elemento in più, secondo la cassazione, per valutare e dimostrare la vivenza a carico ai fini dell’accesso al trattamento.[Cass. sent. n. 28608/2018 dell’8.11.2018].